DI LUANA ROSSINI – POESIE DI MARIA GIOVANNA BRAGANTINI E MATILDE BRESCIANI
Nel terzo libro delle “Metamorfosi”, il grande poeta latino Ovidio racconta il mito di Eco (una delle Oreadi, le ninfe delle montagne) e del suo amore per Narciso (giovane cacciatore famoso per la sua bellezza, figlio della ninfa Liriope). Giove, notando che Eco era incline al pettegolezzo, la spinse a intrattenere sua moglie, la dea Giunone, in modo che non si concentrasse troppo sulle sue scappatelle. Quando Giunone si accorse dell’inganno, punì Eco (non il marito fedifrago ma, si sa, ubi maior), togliendole l’uso della parola e condannandola a dover ripetere solo le ultime che udiva. La ninfa si innamorò perdutamente di Narciso ma, non potendogli confessare il suo amore, riuscì solo a innervosirlo perché, ripetendo le ultime parole che egli pronunciava, gli faceva pensare che lo stesse prendendo in giro. Narciso, stanco della ragazza, se ne andò lasciandola sola. Eco, quindi, si mise a piangere fino a prosciugarsi e di lei non rimase che la voce che riecheggia ancora oggi per le montagne. Fu Nemesi (dea della giustizia e della vendetta e anche punitrice degli amanti crudeli) che, per vendicarla, portò Narciso davanti a una sorgente d’acqua dove, incantato dal suo aspetto, smise di mangiare e bere finché morì. Per ordine di Zeus e degli dèi nacque il bellissimo fiore che porta il suo nome.
Ecco, quindi, il ritorno della metonimia di cui abbiamo parlato nell’editoriale. Dal mito alla parola, dal personale all’universale, da maiuscolo a minuscolo: eco, narciso, nemesi.
Scrivo
(di Maria Giovanna Bragantini – RFI DOIT Verona – la mamma)
Scrivo il mio rifugio:
granelli di sabbia lenti nel raccogliersi,
i pensieri di carta.
Meriggio invernale quieto,
rassetto il presente
frugando i ricordi.
Ombre di vita danzano
sul foglio bianco
per dare un senso al giorno, opaco.
A voler scandire il tempo fuggente,
sorseggio ore calme,
ché le parole d’inchiostro trattengono.
Eco
(di Matilde Bresciani – la figlia)
Io
tua Eco dai giorni solitari
già maledetta in partenza
ben prima del tuo arrivo.
Da divinità a goccia d’ombra
ti seguivo come fonte di ogni mia parola
mia ispirazione, mia musa.
Tu
che risplendevi di luce tua
mai visto alcuno se non te stesso.
Così il nostro equilibrio:
tu avanti ad aprire tutte le porte del mondo
e io al seguito, da brava eco, a coprirne le tracce,
e a farle ricordare come leggenda.
Sempre lì, sempre a distanza
mai varcavo il confine.
Non osavo, terrorizzata dal perderti per sempre.
Trattenevo e trattenevo
mentre il magma accumulava
spasimante dopo spasimante
io lì rimanevo e guardavo
nascosta all’ombra della fresca foresta cui appartenevo.
Bastò poco, un attimo sincero, un attimo di verità.
Un errore nella verità, un catastrofico errore.
Chi osserva solo sé stesso vive in un limbo di perfezione
ove tutto è prevedibile, nulla pericoloso.
L’immutabilità
da cui pure Tempo è tenuto a prossemica distanza.
Fortunato.
Il limbo è solitario
mi escludeva a priori:
vittima dello scorrere della vita
vittima di Tempo.
Io conoscevo l’imprevisto: abituata ad esso
non vi facevo più caso.
E fu, forse, per personale ripicca
che Giustizia alla fine ti si presentò
in un impeto a me estraneo
lontana da ogni sano pensiero
feci quel passo in più
cinta da Amore e Veritas.
La risposta non si fece attendere:
con tristezza, rabbia e delusione,
mi cacciasti.
Tradito dal mio sentimento
che t’aveva ancorato alla misera realtà.
Alcun mio lamento servì a restituirtela.
Potei solo osservarti da lontano,
come un’eco,
dimenarti in questo mondo sconosciuto.
Pregai
non per il cessare del mio tormento
ma per allontanare il tuo.
Infine
non seppi mai se per maledizione
stanchezza o pietà
qualcuno ascoltò.
Fato? O racconto ormai trascritto?
Un riflesso di perfezione ti catturò.
E in un ultimo viaggio
Inderogabile
raggiungesti nuovamente te stesso e il tuo mondo
un fiore incantato
lasciandomi finalmente libera di volare altrove
e di tornare a essere voce.