di Marco Galaverna

La Biblioteca Berio di Genova conserva un opuscolo di autore anonimo [1], stampato nel 1851, che tocca un aspetto importante nella storia della ferrovia dei Giovi, la scelta del tipo di trazione.

La costruzione della ferrovia sabauda, partendo da Torino, era giunta nel 1850 a Novi Ligure e l’anno successivo veniva aperta al traffico fino ad Arquata; tra qui e Genova la sede era pronta in più punti ma si lavorava ancora alla perforazione della galleria di valico. È sorprendente che, in uno stadio già piuttosto avanzato della realizzazione della linea, fosse ancora incerta la scelta della tecnica migliore per superare i tratti a maggior pendenza. In particolare, si dibatteva il confronto tra l’impiego di locomotive in aderenza naturale, come nella maggior parte delle ferrovie allora in funzione (l’opzione cremagliera non compare perché non se ne aveva esperienza), e di argani fissi per il traino dei convogli mediante funi.

Questa seconda ipotesi prevedeva di scartare le locomotive alla base delle tratte in salita e di agganciare i convogli a funi trainate da macchine a vapore fisse. Tale sistema assumeva all’epoca la denominazione di piano inclinato ed era già stato applicato a strade ferrate in Inghilterra, in Belgio e in America.

In sostanza si trattava di funicolari terrestri. A prescindere dalle definizioni attuali, che oggi hanno anche valore normativo, nell’Ottocento la terminologia era meno rigorosa; la distinzione fra piano inclinato e funicolare terrestre iniziò a precisarsi soltanto nel Novecento, quando si preferì indicare come piani inclinati quegli impianti caratterizzati dal solo trasporto di merci o dall’esercizio a “va e vieni” su un unico binario e che esistono ancora, sulle Alpi, al servizio di miniere, dighe o centrali idroelettriche.

Sui Giovi, la soluzione teoricamente più vantaggiosa, con due rampe uguali, di pendenze opposte e convergenti a Busalla, culmine altimetrico della ferrovia, non era attuabile perché, come avviene nella maggior parte dei valichi alpini e appenninici, i due versanti sono asimmetrici: la discesa da Busalla a Pontedecimo è più lunga e ripida di quella da Busalla a Ronco Scrivia. In più, i limiti tecnici alla lunghezza delle funi traenti imponevano la suddivisione della tratta di valico in tre piani inclinati posti in successione; due di questi si sarebbero attestati nella località di Piano Orizzontale, che si può vedere nella mia foto del 1980 (oggi non esistono più la casetta sulla sinistra e la linea elettrica primaria accanto al binario dispari).

L’autore del citato opuscolo presenta elementi a sfavore dei piani inclinati. Quelli già costruiti in Europa, si legge, avevano pendenze inferiori, 28‰ in luogo del 35‰ già allora previsto sui Giovi, o, se salivano al 30‰, come a Liegi, erano molto più corti (1800 m). Riportiamo un brano: «Il signor Mans, Direttore dei lavori della strada ferrata, ha asserito che il servizio sarà istituito talché si possano far salire 15 carri per volta, cioè un convoglio del peso di 90 tonnellate, in 38 minuti… Pure ammettendo anche l’asserito periodo dei 38 minuti di tempo per ogni ascesa, i tre piani inclinati esigeranno sempre due ore». In effetti, la velocità degli impianti a fune dell’epoca sarà stata intorno ai 5 km/h mentre dalle locomotive era ragionevole attendersi una prestazione migliore.

La successiva considerazione sui consumi lascia invece più perplessi. Nella tipica prosa dell’Ottocento leggiamo ancora: «Le macchine dei tre piani inclinati sarebbero insieme della forza di 800 CV circa. Dunque occorrerebbero ogni giorno kg. 115200 di carbone tradotti dal Porto ai Gioghi col mezzo stesso della strada ferrata. Due interi convogli dovrebbero giornalmente essere impiegati solo a ciò, i quali andrebbero messi a diminuzione di quelli giornalieri per le persone e per le merci». Qui l’argomentazione è incompleta, perché manca il confronto con la quantità di carbone che le locomotive avrebbero consumato e trasportato con sé per svolgere lo stesso servizio degli argani. Ad ogni modo, la storia prese un’altra direzione allorché la disponibilità di locomotive in grado di superare, in aderenza naturale, le massime pendenze alla velocità di 12 km/h [2], i famosi Mastodonti dei Giovi, indusse ad abbandonare l’ipotesi dei piani inclinati. Ultima osservazione: a metà Ottocento si scriveva ancora Gioghi, e quella era la denominazione originale dei nostri monti, perché essi circondano il territorio della Superba appunto come il giogo (dal latino iugum, parola antichissima di radice indeuropea) che unisce una coppia di bovini al lavoro.

[1] Anonimo, “Dei piani inclinati della strada ferrata di Genova”, tipografia Delle Piane, Genova,
1851.

[2] A. Damen, V. Naglieri, P. Pirani, “Treni di tutto il mondo – Italia Locomotive a vapore”, Ermanno
Albertelli Editore, 1971.
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Marco Galaverna

Nato a Genova nel 1963, si è laureato in Ingegneria Elettronica presso l’Università degli Studi di Genova e presso il medesimo ateneo ha conseguito il Dottorato in Ingegneria Elettrotecnica. Dal 1989 fornisce supporto presso la stessa Università alle attività didattiche per diversi corsi attinenti all’Ingegneria dei Trasporti. Socio dal 1990 del Collegio Ingegneri Ferroviari Italiani (C.I.F.I.) è stato Delegato della Sezione di Genova di tale Collegio dal 1998 al 2006. È autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche nel campo dell’Ingegneria dei Trasporti e del libro “Tecnologie dei trasporti e territorio” insieme al Prof. Giuseppe Sciutto. Dal 1992 è docente di Elettronica e materie affini presso l’Istituto d’Istruzione Secondaria Superiore Einaudi-Casaregis-Galilei di Genova.