DI MARCO GALAVERNA

ILVA è il nome latino col quale gli antichi Romani chiamarono l’isola d’Elba, dell’Arcipelago Toscano, abitata sin dal Paleolitico e conosciuta da Greci ed Etruschi almeno dal VII secolo a.C. per la ricchezza di minerali ferrosi.

Appare dunque chiaro il riferimento storico che indusse nel 1905 un gruppo di industriali a dare il nome ILVA a una società allora costituita per la produzione di acciaio: non la prima in Italia, perché altre piccole acciaierie già esistevano, ma destinata a un ruolo importante nel nostro Paese.

Nell’ambito di una politica di statalizzazione, l’ILVA fu inglobata nell’Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) nel 1934, poi controllata nel ’37 dalla Finsider, divenuta nel ’49 la Nuova Italsider. La siderurgia italiana a ciclo integrale, principalmente articolata negli altiforni di Genova – Cornigliano, Piombino, Portoferraio e Napoli – Bagnoli, passò quindi in mano pubblica. Il polo siderurgico assunse nel 1964 la più semplice denominazione di Italsider.

Agli storici impianti sopra citati si aggiunse nel 1965 il nuovo sito produttivo di Taranto. Poi, la diminuzione della richiesta di acciaio e, in un secondo tempo, la constatazione dei problemi di impatto ambientale e salute collettiva causati dagli altiforni portarono a una contrazione del settore, alla chiusura dell’impianto di Bagnoli e alla generale riduzione delle lavorazioni “a caldo”. Nel frattempo, la stagione delle privatizzazioni portò alla liquidazione dell’IRI (2000). Ulteriori vicende societarie, che sono quasi cronaca dei nostri giorni, aggravarono la crisi del comparto e condussero al commissariamento dell’ILVA (2021).

Da sempre l’industria dell’acciaio è compagna della ferrovia, sia perché il treno è il mezzo di trasporto privilegiato per i pesanti prodotti siderurgici sia perché la ferrovia stessa ne è utilizzatrice. Oltre alle aree portuali e, in passato, ai siti minerari, l’industria siderurgica è quella che maggiormente ha sviluppato ferrovie interne e raccordi, alimentando una significativa circolazione di treni specializzati e attività di manovra.

Negli ultimi decenni, per le manovre interne l’industria siderurgica italiana ha diffusamente impiegato locomotive diesel – elettriche a quattro assi, con cabina centrale e due avancorpi, di costruzione statunitense (General Electric, GE-CO). Queste macchine, provenienti soprattutto dal sito produttivo di Erie (Pennsylvania, USA), sono state esportate dagli anni ’70 in tutto il mondo e sono distinte in numerose serie, indicate da un numero che esprime la loro massa in “short ton”, un’unità anglosassone equivalente a duemila libbre, pari a circa 907,18 kg. Dalla massa dipende la forza di trazione, cioè la prestazione.

Da un sito internet [1] si ricava che a industrie italiane furono vendute 41 locomotive del tipo “65 ton”, altre dieci del tipo “100 ton” e quattordici del tipo “110 ton”, queste ultime alle acciaierie di Taranto.

Dal 1974 al 1989 la General Electric avviò la produzione di altre serie di macchine, contraddistinte dalla sigla SL (Shunter Locomotives), seguita dal numero di “short ton”, e anche di queste molte unità giunsero agli impianti siderurgici italiani. In quegli anni, furono consegnate due SL80 allo stabilimento di Novi Ligure, quattro SL85 a quello di Dalmine, una SL87 a Piombino, quattro SL100 a Piombino più una a Cornigliano, nove SL110 divise tra Piombino, Taranto e Bagnoli, quattro SL115 a Cornigliano, una SL132 e due SL144 a Piombino.

Da allora, tutte queste locomotive, a cui si aggiungono tre unità SL65 acquistate da FIAT (Ferriere e Luigi Serra), svolgono un oscuro, quotidiano e pesante lavoro di manovra nelle aree industriali e lungo i raccordi; a Genova è possibile vederle tra Cornigliano e Sestri Ponente.

La manutenzione di queste macchine, ordinaria e straordinaria, è in parte svolta da officine locali e in parte da industrie italiane specializzate, con varie difficoltà nel reperimento delle parti di ricambio, cosa che rende talora necessarie parziali ricostruzioni. Infatti, alcune macchine mostrano  modifiche rispetto allo stato d’origine, anche col rifacimento della cabina.

È interessante notare che, negli stessi anni in cui le FS si rivolgevano, per l’acquisizione di nuove locomotive diesel, unicamente ai costruttori nazionali, l’industria siderurgica preferiva acquistare sul mercato americano. Senza mettere in dubbio le qualità di robustezza, forza e affidabilità delle macchine General Electric, viene da chiedersi se, all’epoca, i costruttori italiani non fossero in grado di offrire prodotti competitivi rispetto alla concorrenza estera o se, semplicemente, l’industria americana risultasse vincente nel rapporto qualità/prezzo in virtù dell’economia di scala, conseguente al grande volume di produzione.

 

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio Giacomo Rossi, per la fotografia qui acclusa, che ritrae una “65 ton” a Cornigliano ripresa dal mare, e per altri spunti utilizzati nella composizione della presente pagina

 

[1] https://www.thedieselshop.us/GE_SL-Series.HTML