di Marco Galaverna
Oltre alle accezioni che la parola possiede nel linguaggio comune, nel linguaggio dell’ingegneria l’affidabilità ha una definizione precisa: è la probabilità matematica che una data apparecchiatura, o un componente tecnico o un complesso, non si guasti entro un tempo prefissato dalla messa in funzione.
Per le locomotive, si distingue tra un’affidabilità di primo e una di secondo livello, e la distinzione riflette un’importante differenza tra i guasti che possono accadere durante il servizio: quelli che impediscono la prosecuzione della corsa, con l’inevitabile necessità della sosta del treno e la chiamata di una locomotiva di soccorso, e quelli che non impediscono di portare al termine il viaggio.
È ovvio che le amministrazioni ferroviarie abbiano desiderato, fin dalla loro nascita, contare su locomotive affidabili ma per oltre un secolo il concetto di affidabilità non ebbe una formulazione rigorosa. Tale concetto, nel settore dei trasporti, si sviluppò dapprima in campo aeronautico e solo successivamente raggiunse il mondo dei treni.
Di origini anglosassoni, gli studi di affidabilità acquisirono in Italia rinnovata importanza all’epoca dell’immissione in servizio delle prime locomotive elettroniche. Queste, immatricolate nei Gruppi FS E.632/633 e costruite tra il 1979 e l’88, avevano mostrato tassi di guasto assai superiori alle locomotive precedenti. La questione era stata oggetto del convegno annuale AEI [1] del 1986, nel quale la relazione degli ingegneri FS E. Masi ed E. Mingozzi prendeva toni allarmanti; cito testualmente dagli Atti del Convegno, “L’affidabilità sia di «primo» che di «secondo» livello è molto bassa … il numero elevatissimo di inconvenienti di esercizio ha indotto le FS a sollecitare le ditte fornitrici per raggiungere la risoluzione del problema dell’affidabilità in tempi più brevi possibili”.
Come indice per valutare l’affidabilità delle locomotive, le FS avevano assunto il numero di “chiamate di riserva tecnica” (cioè necessità di richiedere una locomotiva in sostituzione di quella guasta) per ogni milione di km percorsi. Dalla relazione degli ingegneri L. Morisi e G. Vittadini [2] si apprende che per le locomotive elettroniche E.632/633 di prima serie tale indice era pari a 55 nel 1985 ed era sceso a 31 nel 1989, grazie a vari interventi e ad analisi che avevano messo in luce la vulnerabilità dei circuiti ausiliari di bordo, in particolare degli apparecchi di raffreddamento che sono vitali per i dispositivi elettronici, molto più sensibili di quelli elettromeccanici.
Si trattava di indici di affidabilità preoccupanti, se confrontati con quelli delle locomotive elettriche tradizionali. Si pensi che, nello stesso anno 1989, le infaticabili locomotive E.636 entrate in servizio dal 1940 avevano un indice di chiamata di riserva pari a 6, le E.656, all’epoca recenti, un indice pari a 7, le più delicate E.444 un indice pari a 14.
L’approccio al problema mutò radicalmente allorché la progettazione delle locomotive passò dall’Ufficio Studi FS di Firenze all’industria privata. In quello storico passaggio, la questione, da interna all’Amministrazione Ferroviaria, divenne argomento di natura contrattuale. Nei contratti di fornitura di materiale rotabile, stipulati fra le FS e le aziende, fecero la loro comparsa le clausole RAM (acronimo formato dalle parole inglesi per “affidabilità”, “disponibilità” e “manutenibilità”). In pratica, i costruttori dovevano garantire, per i rotabili prodotti, un tasso di guasto in servizio non superiore a una soglia prestabilita.
La prima applicazione delle clausole RAM in un contratto stipulato dalle FS si ebbe nel capitolato di fornitura delle locomotive elettroniche E.652, a chopper, del 1990. In tale sede si fissò un numero massimo di chiamate di riserva, per cause tecniche imputabili al costruttore, pari a 5 per milione di km. Nell’esercizio, già dai primi anni, le E.652 risultarono macchine affidabili e il loro tasso di guasto di attestò su valori inferiori al limite contrattuale; esse svolgono ancora servizi impegnativi per Mercitalia (la fotografia è ripresa a Sestri Ponente).
Resta da notare, ma la questione è complessa e richiederebbe una disponibilità di dati che non abbiamo, che altrove la transizione dai mezzi reostatici a quelli elettronici non ha causato gli stessi problemi avuti dalle ferrovie italiane; ad esempio, in Francia le prime locomotive elettroniche di serie, a chopper come le nostre, le eleganti BB7200, avevano un indice di chiamata di riserva molto basso, pari a 3,8.
Concludo ricordando che, sia nell’insegnamento universitario, sia nelle pubblicazioni tecniche, pioniere nell’applicazione degli studi di affidabilità al campo ferroviario (rivolti, in verità, non alle locomotive ma agli impianti di sicurezza) fu da noi il prof. ing. Vittorio Finzi, le cui dispense per il corso di Trazione elettrica, per me studente d’ingegneria, fornirono la prima occasione d’incontro con tali argomenti.
[1] Associazione Elettrotecnica ed Elettronica Italiana, Giornate di Studio “Lo stato dell’arte delle applicazioni dell’elettronica nella trazione alla luce delle esperienze fatte”, Firenze 1986
[2] Associazione Elettrotecnica ed Elettronica Italiana, Giornate di Studio “Sistemi elettrici per i trasporti”, Firenze 1994