di Elisabetta Spitaleri
Non parleremo di film ma poiché il prossimo 27 gennaio si celebra la Giornata della Memoria è importante segnalare questa volta un documentario, testimonianza preziosa su un episodio che ha quasi del miracoloso in uno dei periodi più oscuri della storia europea e mondiale e che ci fa riflettere su come è sempre possibile la solidarietà.
Coprodotto dall’U.S. Holocaust Memorial Museum Research Institute fondato da Steven Spielberg, “La fuga degli angeli” (titolo originale (Into the Arms of Strangers: Stories of the Kindertransport) è stato diretto da Mark Jonathan Harris nel 2000 vincendo l’Oscar l’anno seguente per il miglior documentario. Il regista, vincitore di un altro Oscar per il film – documentario “The Long Way Home” del 1997 sulla creazione dello Stato di Israele, è anche ideatore con la produttrice Deborah Oppenheimer (la cui madre fu una dei 10mila bambini) di questa eccezionale narrazione.
Nei nove mesi che precedettero lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale migliaia di bambini, per la maggior parte ebrei, vennero mandati dai loro genitori in Inghilterra da Germania, Austria e Cecoslovacchia. Il documentario, attraverso le toccanti testimonianze di alcuni di loro, ormai adulti, racconta le storie personali e le emozioni contrastanti che hanno segnato la loro esperienza e il loro futuro. A integrare il racconto un rarissimo materiale d’archivio e le interviste fatte ad altri protagonisti di questa iniziativa straordinaria: una madre inglese affidataria, alcuni organizzatori e sopravvissuti ad Auschwitz.
Ma come nacque questo eccezionale progetto di solidarietà? Dopo che la notte dei cristalli tra il 9 e il 10 novembre 1938 aveva visto lo scatenarsi del primo pogrom su larga scala contro la popolazione ebraica, l’opinione pubblica mondiale si interessò alle sorti delle minoranze ebraiche e soprattutto a quella dei bambini. Dopo l’appello di una delegazione di leader britannici, ebrei e quaccheri al Primo Ministro inglese, Neville Chamberlain, si avviò questo programma di salvataggio finanziato da organizzazioni umanitarie e religiose nonostante la forte opposizione interna di simpatizzanti e sostenitori del Terzo Reich. Il Congresso degli Stati Uniti rifiutò invece ogni cooperazione con una dichiarazione formale, affermando che ospitare i bambini senza i genitori sarebbe stato contro le leggi di Dio.
Per ogni bambino si doveva versare una somma di 50 sterline a garanzia del futuro ritorno in patria perché fosse chiaro che l’accoglienza sarebbe stata solo temporanea.
Il regime nazista non ostacolò il programma, ma stabilì che ogni bambino avrebbe potuto portare con sé solamente una valigia, un bagaglio a mano e 10 marchi, proibendo l’esportazione di oggetti di valore. Dopo il confine i treni erano attesi da gruppi di donne che offrivano cioccolata e dolciumi. Il treno arrivava sino a Hoek van Holland, presso Rotterdam, da dove il viaggio proseguiva per mare fino ad Harwich, e quindi con un altro treno fino alla stazione londinese di Liverpool Street dove le famiglie affidatarie venivano a prendere i bambini. Tra il febbraio e l’agosto 1939 furono organizzati treni anche dalla Polonia.
I bambini rimasero in contatto con le famiglie d’origine tramite le poste tedesche e inglesi fino allo scoppio della guerra nel settembre del 1939 e poi con cartoline recapitate dalla Croce Rossa Internazionale, fino a quando nella maggior parte dei casi questi contatti cessarono. Con lo scoppio della guerra ironicamente circa un migliaio dei ragazzi più grandi giunti con il Kindertrasport, ormai cresciuti, furono internati come “enemy aliens” nell’isola di Man, in Canada o Australia.