di Simone Farello
Paolo Nori è uno di Parma che scrive dei libri. Lui si descriverebbe così, e basta. Del resto i suoi romanzi (ma anche i suoi reportage, come ‘Baltica 9’, scritto insieme a Daniele Benati; o i suoi saggi, tipo ‘Pubblici discorsi’) rappresentano una sorta di minimalismo linguistico che rendono giustizia al vero fulcro della scrittura di Nori: la lingua parlata.
Il mimimalismo
Il minimalismo è una corrente letteraria e stilistica americana, che ha come obiettivo quello di raccontare la vita delle persone comuni e la loro normalità, riducendo, appunto al minimo, gli sperimentalismi tecnici e tematici del postmoderno. Celebri autori che si possono ricondurre al minimalismo sono Philip Roth, Jhon Updike e Richard Ford: tutti molto famosi, pluripremiati e spesso associati al Nobel per la Letteratura, anche se nessuno di loro l’ha mai vinto. Spesso i loro romanzi sono davvero belli e intensi ma, prendiamo ad esempio ‘Il Giorno dell’Indipendenza’ di Richard Ford, fanno pensare i personaggi in un modo del tutto inverosimile. Nessuno pensa in modo così articolato, dettagliato sintatticamente corretto ed evoluto: le persone pensano come parlano. E a volte stanno zitte.
Paolo Nori
I personaggi di Paolo Nori, e lo stesso Nori quando scrive in prima persona come in molti dei suoi libri compresi gli ultimi, parlano la lingua che usiamo davvero quando pensiamo. A questa lingua che non è né un dialetto né un argot, ma il dettato del discorso indiretto libero che frulla nelle nostre teste, Nori ancora i protagonisti assurdi di ‘Pancetta’ o quelli di uno dei migliori romanzi storici del e sul nostro dopoguerra, ‘ Noi la farem vendetta’ o, appunto, sé stesso.
Nei recenti ‘Il manuale pratico di giornalismo disinformato’ e ‘Le parole senza le cose’ Nori racconta il mondo con gli occhi stralunati ma acutissimi di uno che ci capisce poco, di quello che sta succedendo: tutto cambia molto velocemente e quello su cui facevamo affidamento, ad esempio gli oggetti, vengono sostituiti da qualcosa di più innovativo o avanzato lasciando a noi il compito di dare un senso al tempo che scorre. La solidità degli oggetti è stato uno dei miti concreti di una certa società dei consumi, dove le cose erano, come nella poesia di Jorge Luis Borges, “taciti schiavi / senza sguardo, stranamente segrete! / Dureranno piú in là del nostro oblio; / non sapran mai che ce ne siamo andati”. Oggi la tecnologia, a partire ad esempio dai telefoni, ci scorre nelle mani come sabbia e il nostro vocabolario quotidiano è pieno di nomi che non si associano più a nulla di concreto: una forma acuta di precarietà.
I nomi delle stazioni: Forlimpopoli
Restano pochi appigli, e tra questi Nori, con la sua normalissima lucidità, ci indica i nomi delle stazioni ferroviarie: Forlimpopoli, ad esempio. Nomi che non cambiano, come probabilmente non sono cambiati più di troppo i luoghi che annunciano e anche se così fosse possiamo, quando siamo sul treno, far finta che siano sempre le stesse piccole città, dove non succede quasi mai niente se non i miracoli di tutti i giorni, che sono quelli che contano, che cambiano le vite vere, che minime non sono mai, anche se si esprimono con parole loro. Miracoli come quello raccontato nella poesia ‘In Treno’ di Raffaello Baldini, da cui Paolo Nori tira fuori Forlimpopoli. È una poesia piena della vita come può accadere davvero, e si trova nella raccolta ‘La nàiva Furistir Ciacri’ e come la prosa di Nori è una ventata di delicatezza nella nostra letteratura così piena di fanfare gracchianti.
******************************************
Simone Farello, già assessore e consigliere comunale di Genova, scrittore e blogger (“Simone Farello simply a reader”) scrive per “Superba” una serie di recensioni incentrate proprio sul mondo dei treni.