di Luigi Ottonello

Recentemente ho percorso un lungo giro appenninico in bici da strada che da tempo era evidenziato sulla cartina. Dapprima quasi una linea retta che taglia i tre crinali spartiacque paralleli alla costa, poi una graduale ma costante chiusura di cerchio per rientrare al mare: oltre 200 km in 8 ore di sellino in solitudine che mi hanno suggerito alcune considerazioni che condivido.

Appennino: enclave di selvaggia e dura esistenza tra due (quasi) infiniti, il mare e la pianura. Territorio di vertigine, silenzio e malinconia dove le pietre ordinate nei secoli oramai rotolano a valle già precedute in varie ondate migratorie dai suoi tenaci abitanti già residuali, stanchi druidi contaminati ma ermetici, a testimonianza di tradizione di vita agreste di sopravvivenza. 

Terre attraversate da strade secolari, per avidi commercianti o pellegrini bramosi di indulgenze, per eserciti devastatori o giovani resistenti desiderosi di libertà. 

Lapidi, chiese, case che si abbracciano teneramente alla ricerca di un raggio di sole che dona calore a pareti umide e a cuori che trasudano sofferenza; fontane spesso presidiate da anziani, libri di storia aperti in cerca di una parola di conforto, ungulati e volpi che – rincorrendosi – sembrano cercare il tuo sguardo, rapaci cullati dalle correnti ascensionali a presidio di lande densamente spopolate.

E poi boschi e ancora boschi, come un mantello che cambia muta a tratti quasi soffocanti, e che straripa su pascoli sempre più magri, per sparuti bovini che mangiano felici e sereni.

Asfalti residuali che a fatica ti portano a valle seguendo torrenti dove scorre arsura su pietre rotolanti.

Poi improvvisamente opulenti paesini per esuli cittadini; cemento selvaggio e palazzine residenziali con cancelli e steccati allarmati, solitudine moderna che si annega in parchi giochi acquatici, “divertimentificio” artificiale che dona effimera gioia.

Vento, teso e basso da fondovalle, strada, autostrada e ferrovia, chiasso da civiltà dei consumi senza limiti, che bada al P.I.L. e ai T.E.U.; ancora alcune borgate decadenti che schiacciano la strada, neppure le chiese hanno il sagrato, asilo per asilantes in fuga, per alcuni ospiti indesiderati per altri fonte di reddito e continuità. 

Ancora salita, poi, ville altolocate un po’ datate che accompagnano alla vera metropoli la Superba, meta, ormai miraggio di buona vita.

Apoteosi di cappannoni, mercati iper e super, buchi per TAV, caserma di tortura post civiltà solidale, edifici in ordinata fila di quando la classe operaia sapeva andare in Paradiso.

Angiporto, night club e prostitute d’ogni dove, porto e porto antico, Acquario, il palazzo ove prese avvio il crudele esercizio umano della speculazione finanziaria vero peccato originale, e lo scheletro della Concordia simbolo della vera decadenza frutto del secolo che si sperava senza storia, ci portano al mare luogo di imbarchi per terre promesse e sbarchi ancora tragici ma anche luogo leggiadro di relax e refrigerio dove tra profumi di creme solari e crostacei alla griglia nasceranno amori estivi della cui durata nessuno è in grado di proferire: un destino incerto e tutto da costruire proprio come quello dell’Appenino e delle sue poche genti.

Il dettaglio del percorso: Nervi-Recco-Uscio-Lumarzo-Gattorna-Monleone-Favale-Passo Scoglina-Barbagelata-Montebruno-Propata-Casa del Romano-Val Borbera-Arquata S.-Busalla-Passo Giovi-Val Polcevera- Sampierdarena-Porto Antico-Corso Italia-Nervi

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